Ganjah è uno dei nomi con cui i Rasta chiamano tradizionalmente la “Cannabis”, una pianta dagli speciali poteri medicinali e psicotropici, nonché dalle numerosissime applicazioni produttive, il cui uso è attestato in tutte le maggiori civiltà religiose e sapienziali del mondo e fin dall’epoca più remota. Sebbene il termine richiami la lingua indiana (come il suo fiume sacro) in virtù di storiche connessioni tra le prime comunità RastafarI e quelle Hindu nei Caraibi, esso è anche interpretato come “Gone Jah”, descrivendo l’elevazione spirituale del pensiero che essa determina, e “Gun-Jah”, come cannone pacifico del fuoco purificatore di Dio contro le illusioni e perversioni della mente.
Nella tradizione etiopica, essa viene chiamata in molti modi particolarmente evocativi come “Erba di Persia” (Edse Fars, alludendo ancora alle pratiche indiane e orientali), “Erba della Profezia” (Edse Tenbit, poiché capace di illuminare la visione), “Erba del Re” (Edse Negus, associandola alla conoscenza mistica dei sovrani Salomonici e ad Haile Selassie) ed “Erba del Regno” (Edse Mengest), e viene utilizzata segretamente da scribi e monaci cristiani per agevolare la meditazione e lo studio spirituali, e per curare i malati. Questa cultura viene naturalmente custodita e sviluppata dalla Fede RastafarI, che, a dispetto di quanto è insinuato dalla sua commercializzazione caricaturale occidentale, non ha nulla a che fare né con lo sballo giovanile né con il divertimento libertino: di tratta invece di antica medicina tradizionale e pratiche mistiche fondate su solidi principi morali, che impongono disciplina mentale, controllo di se stessi e senso di responsabilità sociale.
L’Apostolo Giovanni, nel libro della Rivelazione – scritto a proposito della Seconda Venuta di Cristo e dunque di questo tempo – profetizza a riguardo:
“Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni.”
(Apocalisse 22, 1-2)
Da questo passo è tratta l’espressione “Healing of the Nations” con cui i Rasta indicano la pianta nella sua speciale funzione curativa, universalmente applicabile ad ogni genere di malanno fisico. Nonostante gli ostacoli politici posti dal proibizionismo occidentale, gli studi scientifici sulla canapa stanno confermando progressivamente tale convinzione, così che il suo uso medico è ormai riconosciuto legalmente anche negli stati storicamente più diffidenti, e oltre ad essere l’unica medicina esistente per una serie di malattie altrimenti inguaribili (come ad esempio la sclerosi multipla) offre una gamma ampissima e comprovata di applicazioni terapeutiche. Come suggerito dal passo biblico su citato, essa può inoltre radicarsi, svilupparsi e fiorire in qualunque condizione climatica, anche la più impervia (c’è anche una varietà siberiana), e in qualunque momento dell’anno, manifestando un’energia biologica di adattamento e crescita assolutamente unica.
Oltre a ciò, a riprova della sua peculiarità benefica, la pianta può essere utilizzata in tutti modi possibili con risultati eccellenti, dall’alimentazione a vestiti e tessuti, dall’edilizia alla produzione di carta e plastiche, e teoricamente ci si potrebbe immaginare un ambiente umano interamente composto e costruito con essa. La sua eccezionale versatilità ricorda l’immagine biblica della “Manna”, quel misterioso cibo “indeterminato” che Dio diede ai padri nel deserto, e che assumeva il sapore che ognuno di essi desiderava (Esodo 16). Studiandone e sfruttandone saggiamente le infinite risorse, gli stati potrebbero sanare tutte le proprie ferite materiali ed economiche, come un sacramento regale che il Re ha rivelato e amministrato all’umanità moderna, che quest’ultima ha il dovere e la necessità di assumere e sfruttare, come qualche governo sembra abbia adesso compreso. A questo proposito, Davide dichiara nel salmo dedicato al Regno del Messia:
Si allungherà più del cedro il Suo frutto ::
E germinerà dentro il paese come erba della terra ::
(Salmo 71/72)
La santità di questa pianta è ancora confermata dal nome “Mariujana”, con cui è comunemente conosciuta, che la associa alla vergine Maryam madre di Dio – la creatura più santa della storia – simbolicamente identificata nella tradizione etiopica con il “roveto ardente” che Mosè vide sull’Oreb (Esodo 3). Precisamente, il suo nome somma quello della Vergine e di Yohannes (Giovanni), l’apostolo più giovane e più amato da Cristo – come Lui appartenente alla tribù di Giuda – che avrebbe ricevuto la visione della Sua Seconda Venuta e a cui il Cristo affidò Sua madre. Maria e Giovanni sono iconograficamente associati alla Croce (in quanto presenti nei suoi pressi quando Cristo fu appeso), che è figura della Pianta linnea come strumento di salvezza di Dio. D’altronde, quando l’uomo fu creato, il Signore disse Adamo ed Eva (Genesi 1,29):
“Ecco io vi do ogni erba che fa seme sulla superficie di tutta la terra e ogni albero che abbia frutti portatori di seme; questo vi servirà di nutrimento.”
Proprio come la Vite nella Cristianità ha sia una funzione sacramentale che un uso psichico, in virtù della sua azione sul cuore e la sfera emotiva, così anche la Ganjah è utilizzata per l’apertura e il potenziamento dell’occhio mentale: il rapporto simbolico tra vino e ganjah come sostanze sacramentali ed eucaristiche è prefigurato dalle due speciali piante presenti nel Paradiso Terrestre, l’Albero della Conoscenza del Bene e Del Male e l’Albero della Vita, che secondo la Scrittura dovevano essere gustate una nel principio della Creazione e una alla fine, con la venuta regale del Cristo, affinché l’uomo raggiungesse la completa divinizzazione della propria natura. Per questo Davide profetizzò:
Colui che fa brulicare l’erba per gli animali ::
E la verdura per il servizio dei figli del Vivente ::
Affinché faccia uscire il pane dalla terra ::
Il vino che rallegra il cuore degli uomini ::
E l’olio per far splendere il volto ::
(Salmo 103/104)
Sebbene l’uso psichico della Ganjah sia gestito da ciascun fedele secondo le proprie scelte personali, e vi siano anche Rasta che se ne astengono, esso è tradizionalmente praticato dai Rasta attraverso il fumo, che richiama la fisionomia dello spirito intangibile. In ciò è assimilata all’incenso, che viene bruciato nel Tempio di Dio per ispirare uno stato mentale di adorazione, preghiera e meditazione: se come il Cristo afferma, il corpo dell’uomo è il tempio del suo spirito e di quello di Dio (I Corinzi 6,19) il fumo della Ganjah rappresenta l’incenso del tempio corporale. Essendo l’anima umana composta di fuoco e vento, il fumo della Ganjah è un esperienza di questi elementi e il loro nutrimento nella nostra essenza. Il modo più sacrale e salutare di assumerlo, che avviene durante le cerimonie liturgiche dei nyabinghi, è il “chalice” (calice), una pipa d’acqua che raffredda l’aria e la purifica dalle impurità della combustione, ricreando l’’immagine del vulcano come pipa naturale di Dio.
Sebbene i Rasta abbiano lottato per il riconoscimento legale di questo costume – e in qualche caso l’abbiano storicamente ottenuto, anche in Italia – tuttavia essi si rifanno alla legislazione stabilita da Haile Selassie I, che non prevedeva una diffusione indiscriminata ma un utilizzo qualificato, sia in termini spirituali che medici, ed imponeva moderazione, discrezione e responsabilità di assunzione che non compromettesse la lucidità, la salute e la sicurezza di alcuno.